Caduta mortale dal lucernaio per il titolare di un’impresa artigiana chiamato dall’appaltatore dei lavori. Il committente deve verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori
Cassazione Penale, Sez. 4, 19 gennaio 2018, n. 2332
Fatto
1. La Corte di appello di Torino il 14 ottobre 2016, per quanto in questa sede rileva, ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Cuneo del 24 giugno 2014 con la quale M.G. è stato riconosciuto colpevole di omicidio colposo, con violazione della disciplina antinfortunistica, fatto contestato come commesso il 2 maggio 2006, e conseguentemente condannato alla pena ritenuta di giustizia.
2. In particolare, i Giudici di merito hanno ritenuto che l’imputato, in qualità di amministratore delegato della s.p.a. Fomec e di committente delle opere di cui si dirà, si sia reso responsabile della morte dell’operaio A.K..
A.K. stava provvedendo alla impermeabilizzazione della copertura del capannone della ditta Fomec ma, poiché la fiamma del cannello che stava utilizzando aveva appiccato il fuoco ad un lucernaio in plexiglass, lo stesso, a causa dell’incendio, indietreggiava e cadeva sul lucernaio retrostante che, non idoneo al calpestio, si sfondava, sicché il malcapitato precipitava dall’altezza di otto metri, riportando lesioni che lo conducevano a morte.
Va premesso che la s.p.a. Fomec, di cui M.G. era amministratore delegato, aveva affidato i lavori di impermeabilizzazione alla impresa individuale D.A. di D.A., il quale aveva dato a disposizioni ad A.K., formalmente non dipendente di alcuno ma titolare di una ditta artigiana individuale, di provvedere al lavoro in quota.
Appare opportuno precisare che è stata affermata la penale responsabilità di D.A., sotto molteplici profili (principalmente, ma non esclusivamente, per la mancata messa a disposizione dell’operaio, sostanzialmente subordinato, di presidi di sicurezza per il lavoro in quota, quali reti di protezione, soppalchi con tavole o linee-vita, e per non avere segnalato i lucernai non calpestabili), con decisione ormai irrevocabile (infatti la sentenza della Corte di appello di Torino del 20 ottobre 2016, con cui è stata revocata nei confronti di D.A. la pena sospesa ed applicato l’indulto, con conferma nel resto della decisione del 24 giugno 2014, è passata in giudicato, quanto ad D.A., il 21 gennaio 2017).
Quanto alla posizione di M.G., si è ritenuto da parte dei Giudici di merito (v. pp. 9-10 della sentenza impugnata e, ampiamente, pp. 8-9, 11-13 e 15-17 della sentenza di primo grado) che lo stesso sia stato negligente nella verifica della idoneità tecnico-professionale della ditta cui aveva affidato i lavori, sotto plurimi aspetti:
l) perché dalla visura presso la camera di commercio risultava che la ditta D.A. non aveva dipendenti e ciò avrebbe dovuto indurre il committente, che non aveva autorizzato alcun subappalto, sia a chiedersi chi fossero gli uomini visti lavorare sul tetto, quindi in quota, e ritenuti, come emerso dall’istruttoria, “uomini di D.A.”, sia ad interrogarsi sulla idoneità del solo D.A., che risultava imprenditore individuale, a realizzare da solo tutti i lavori commissionati;
2) perché l’esiguo preventivo della ditta D.A. appariva palesemente inidoneo a coprire gli oneri della sicurezza, con la conseguenza che la Fomec avrebbe dovuto chiedere chiarimenti al riguardo – cosa che non risulta fatta – anche perché il rischio di caduta dall’alto, di persone o di cose, trattandosi di lavori di impermeabilizzazione di una copertura ad otto metri di altezza era immediatamente percepibile a chiunque e non era specifico della sola ditta appaltatrice né esclusivo ad essa, esistendo, in realtà, pericolo anche per i dipendenti Fomec che agivano in basso nella zona sottostante;
3) perché è risultata in concreto irrilevante la pregressa collaborazione tra D.A. e Fomec;
4) perché M.G., nella qualifica di amministratore delegato della Fomec, aveva direttamente seguito le trattative con D.A., partecipando di persona anche al sopralluogo sul tetto con lo stesso nel settembre 2005, occasione in cui avrebbe dovuto segnalare il pericolo di precipitazione dall’alto, stante la non caIpestabilità del plexiglass, costituendo tale situazione rischio di entrambe le imprese e non già esclusivo di quella appaltatrice;
5) perché scritta sul preventivo della D.A. è stata rinvenuta l’annotazione “Ok M.G.”;
6) infine, perché all’ingresso della Fomec vi era una portineria in cui si annotavano i nomi di chi faceva accesso.
L’agire di M.G. è stato ritenuto, dunque, concausa della morte di A.K. (p. 10 della sentenza impugnata e pp. 8-9 ed 11-17 di quella di primo grado).
3. Ricorre tempestivamente per la cassazione della sentenza, tramite difensore, M.G., che si affida a quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo denunzia errata applicazione della legge penale poiché – assume, anche con richiamo di giurisprudenza di legittimità stimata pertinente – ove non vi sia ingerenza del committente nell’organizzazione, non può esservi responsabilità di questi in materia antinfortunistica, altrimenti vertendosi in un’ipotesi di responsabilità puramente oggettiva.
3.2. Con il secondo motivo censura difetto motivazionale per illogicità perché erroneamente si è ritenuto che il ricorrente non abbia adeguatamente informato l’appaltatore di rischi connessi alla lavorazione in quota, in particolare nel corso del sopralluogo congiunto sia perché D.A. era da anni in rapporti commerciali con la Fomec e conosceva bene i luoghi sia perché la stessa sentenza (alla p. 10) definisce di immediata percepibilità il rischio.
3.3. Altro vizio di motivazione, per mera apparenza della stessa, sarebbe riscontrabile a proposito della parte della sentenza in cui si disattendono – con apparato giustificativo stimato assai inadeguato – le osservazioni difensive e le emergenze istruttorie (allegando al riguardo una pagina del verbale del 3 dicembre 2013 e tre pagine tratte dal verbale del 3 giugno 2013) a proposito della – stimata – congruità del prezzo proposto da D.A. rispetto alla tematica della sicurezza, potendosi ipotizzare varie soluzioni sicure a diverso prezzo.
3.4. Mediante l’ultimo motivo, partendo dall’affermazione testuale della Corte di appello, secondo cui il rischio in questione è «attinente alla generica necessità di impedire cadute dall’alto» (p. 10), si assume che il rischio nel caso di specie sarebbe stato soltanto generico e non specifico e, perciò, ad avviso del ricorrente, non ricollegabile all’art. 589, comma 2, co. pen. ma solo all’art. 589, comma 1, cod. pen.: in conseguenza, il reato sarebbe prescritto.
4. Con memoria pervenuta in Cancelleria il 13 novembre 2017 il ricorrente ha insistito per l’accoglimento dell’impugnazione proposta.
Diritto
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
1.1.Il primo motivo non si confronta con la sentenza impugnata, che ha confermato la valutazione già svolta dal Tribunale, secondo cui «l’attività imprenditoriale della “Fomec […] non interferì minimamente con l’accaduto» (p. 14 della sentenza). E’ stata ravvisata, invece, colpa dell’imputato sotto differente profilo, conformemente all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «In materia di infortuni sul lavoro, il committente ha l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (Fattispecie, relativa alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall’alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata ritenuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo del committenti, che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa di impresa, che gli consentisse di lavorare in sicurezza)» (Sez. 3, n. 35185 del 26/04/2016, Marangio, Rv. 267744; nello stesso senso, cfr. Sez. 4, n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi ed altri, Rv. 264974; Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Marangio e altri, Rv. 252672; Sez. 4, n. 42465 del 09/07/2010, Angiulli, Rv. 248918).
1.2. Il secondo motivo di ricorso si incentra, a ben vedere, esclusivamente su di uno tra i numerosi profili di colpa valorizzati dai Giudici di merito, estrapolato tuttavia dal complessivo contesto, con il risultato di affidarsi ad un motivo aspecifico, in quanto esso non si confronta concretamente con la sentenza impugnata: l’argomento svolto peraltro non è risolutivo, poiché la sentenza, a ben vedere, “resiste” alle censure anche senza tale passaggio.
1.3. Il terzo motivo di ricorso si risolve, in realtà, in una contestazione di pieno merito, a fronte di doppia decisione conforme, contestazione peraltro basata su frammenti dell’istruttoria selezionati soggettivamente dal ricorrente e comunque relativa ad aspetto da solo non risolutivo. Vale, dunque, quanto già osservato in precedenza.
1.4. Il ricorrente anche sotto l’ultimo profilo non si confronta con la sentenza impugnata, in quanto è stato ritenuto dai Giudici di appello, testualmente, «Sussiste[nte …] a carico del committente profilo di colpa specifica contestato in relazione all’art. 7 co. 1 D.L.vo 626/94» (così, p. 16 della sentenza del Tribunale; valutazione confermata integralmente alle pp. 9-10 di quella di appello).
2. Dalle considerazioni svolte discende il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente, per legge (art. 616 cod. proc. pen.), al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il processuali.
Così deciso il 28/11/2017.